vignetta di un fonico e due aiutanti in magazzino

La tempesta di Santo Sfigo

I flight case sono in ordine, finalmente. Non c’è in giro nulla, nel magazzino, che non sia più o meno al suo posto. Tranne il pavimento: la lunga nottata di pioggia e vento ha fatto entrare tutto il fango possibile, da sotto le porte. Il fonico ha fatto più di quel che doveva, come al solito, per cui allunga una mano verso un tizio un po’ più giovane (e molto più robusto), che gli mette in mano una birra, finalmente fresca perché il capannone è dotato di un frigorifero a pozzetto, aperta con la prima cosa trovata sotto gli occhi.

Dopo una lunga sorsata, il fonico, che si chiama Pietro, dice al portatore sano di birre (che è un magazziniere e si chiama Paolo, ma lo chiamano Paolino perché supera il quintale) di far venire quello giovane, il tuttofare ultimo arrivato fresco fresco dalla scuola: – Questo pavimento così non può stare. L’intera zona industriale sembra essersi riversata qua dentro. Fa’ venire il ragazzo, dagli una birra e mettigli in mano la scopa. Poi ci ripensa: – No. Prima la scopa.

Il lavoro da fare non è pesante, ma estremamente noioso, soprattutto considerando che di solito è un’occupazione del mattino dopo, da fare a schiena fresca, non adesso: con una nottata di concerto sulle spalle, passata a combattere contro il vento e terminata con uno smontaggio sotto la pioggia. Così, il ragazzo, che pare far Ragazzo di nome, almeno stando a come lo chiamano, si mette lì e ramazza. A un certo punto dice, più a sé che agli altri: – Mai vista una tempesta così… Pietro solleva solo gli occhi e smette di lisciarsi  il pizzetto. Paolo sorride al collo della bottiglia. Poi parla: – Pie’, ha detto tempesta. – Ho sentito. – Forse è arrivato il momento di capire cos’è una tempesta vera. Parlagli della festa di Santo Sfigo.

Ragazzo ha smesso di ramazzare, butta la scopa in un angolo e si avvicina: tanto metà capannone è fatto. – Santo Sfigo? Cos’è questa storia? Pietro sorride. Domani non hanno date, Ragazzo potrà finire il lavoro in seguito. – Ci vuole un’altra birra, Paoli’, per questa storia. E prendine una anche a Ragazzo. Ma il ragazzo, o Ragazzo, salta come una molla dal baule dov’era poggiato e dice: – Faccio io. Comincia.

Pietro ripensa alla festa di Santo Sfigo. Già il nome del patrono avrebbe dovuto fargli intuire un paio di cosette. Sorride e inizia:

– Eravamo a Valleiella, per la festa patronale. Dopo due giorni di processioni e mercatini, per l’ultima serata avevano previsto un live. Appena arrivati in paese, non potemmo fare a meno di notare che nella piazza centrale non c’era nessun palco: scoprimmo subito, grazie all’accoglienza dei volontari del comitato, che quest’anno avevano deciso di organizzare la festa nell’ex campo sportivo: uno sterrato senza gradinate, senza spalti, senza recinzione. Praticamente una distesa di tremila metri quadri di terra rossa e fina, senza alcun riferimento: visto così, poteva anche essere un campo di patate.

A loro chiedemmo le solite informazioni sui bar aperti, i cessi pubblici, il tempo. Così sapemmo che per tutta la notte, prima aveva fatto vento forte e pochissima pioggia, poi si era calmato. La prendemmo come una buona notizia. Aria quasi ferma. Insomma, tutto lasciava credere che avremmo portato la data a casa senza problemi.

In realtà, quella mattina il meteo del telegiornale aveva detto che portava pioggia. Chiamai anche un mio amico che lavorava in Aeronautica, proprio all’ufficio meteorologico. Allora, erano gli unici a fare le previsioni del tempo, tant’è che le davano in televisione e venivano prese per buone. A parte i pescatori, naturalmente, che ci azzeccavano più spesso, ma a Valleiella pescatori non ce n’erano. Mi confermò che portava pioggia, anzi tempesta. Ma visto che il cielo era limpido, non mi volli fidare, ero sicuro che stavolta avessero sbagliato. In ogni caso, prima di iniziare mi accertai che ci fossero sufficienti teli pronti all’uso.

Io ero giovane allora, ma avevo capito la prima regola già da un po’:  pensa a tutto . E se accade qualcosa di assurdo, la colpa è comunque tua, perché non l’hai previsto.

Con questa regola del mio codice personale fissa in mente, cominciammo e portammo a termine tranquillamente ogni cosa, dal montaggio dell’americana al cablaggio di casse, finali e sì, anche delle luci! (ride). Ok, tranquillamente non esiste: come sempre, ogni minuto passava qualcuno a chiedere qualcosa. E chi viene, e chi non viene, e a che ora comincia, a che ora finisce. All’inizio fai il gentile, continui a lavorare e rispondi a modo, dopo un po’ ti scocci e liquidi i curiosi con uno scortese non lo so. Alla centesima interruzione, cominci a spararle grosse. Da Alan Sorrenti a Michael Jackson, quella sera a Santo Sfigo si sarebbe esibito chiunque.

Il soundcheck filò liscio e, caso raro, riuscimmo anche a cenare prima della serata. Cominciammo in perfetto orario: band parrocchiale di apertura, premiazione, ringraziamento degli sponsor… tutta la scaletta di seguito, quasi senza intoppi. Un paio di larsen, qualcuno che prende a parlare nel microfono sbagliato, cose così.

Ma… C’è un ma. Il cantante dell’ultimo gruppo, -come la maggior parte dei quasi famosi- sembrava impazzito: appena la band cominciò a suonare, ebbe una specie di crisi isterica che sembrava non finire mai. Chissà che roba si era fumato dopo cena. Non credere, ogni tanto anche a quelli famosi può capitare: a un certo punto cedono, e tanti saluti alla professionalità.

Questo però era proprio incazzato con il mondo intero: cantava lontano dal microfono, delirava senza sosta alzami questo, abbassami quello, è sparito il basso, che hai fatto alla voce che non mi sento… e poi sfanculava in continuazione i suoi musicisti. Amico, va bene che mi fai uscire pazzo con i suoni, ma se nel frattempo fai anche a botte con la tua band, come faccio a lavorare?

Allora le scene si facevano con carta e penna e strisce di nastro. Al cambio palco rimettevi a posto potenziometri e fader: le imprecisioni (inevitabili) si correggevano durante il primo brano. In realtà, una volta fatti i suoni, toccavo poco o nulla. E anche oggi, come allora, quando una richiesta è dettata dalle manie di protagonismo (o dalla mancanza di talento), fai finta di muovere qualcosa e mugugni nel talkback «Così va meglio?». Quello fa pollice su, tu non hai toccato niente, tutti contenti. Solo che quello là stava davvero esagerando. –

Pietro finisce la birra con un’unica sorsata. Paolo guarda in terra, sorridendo, perché conosce la storia e sa che non è finita. Ragazzo è fermo, con le birre in mano, a bocca aperta. Ne dà una a Paolo, una per sé, poi si siede sopra il baule delle teste mobili. Pietro prende la sua senza smettere di guardare giù: ha solo cambiato una bottiglia semivuota con un’altra piena. E infatti riprende:

– Stavano ancora suonando la prima canzone. Ci fu una folata di vento, come quelle che arrivano dal mare, solo che il mare era almeno duecento chilometri indietro. Sembrava quasi un effetto preparato, coi loro capelli lunghi e le giacche che sventolavano. Non ci pensai neanche io, ma per un secondo soltanto. Perché, girandomi per prendere un giubbotto, vidi arrivare il resto: un nuvolone che copriva tutto il cielo correva dritto verso di noi.

Gridai al nostro backliner di tirare fuori i teli dal baule, ma qualcosa mi diceva che non sarebbe bastato e così, dieci secondi dopo, chiesi al luciaio di guardarmi il banco, perché volevo controllare di persona che sul palco fosse tutto ok. Sì, allora si poteva ancora fare, se dovevi abbassare un canale che fischiava non ti dovevi preoccupare di capire su quale layer fosse. Lo show era tutto lì.

Mentre la band continuava a suonare io e il backliner cominciammo a fermare con corde e cinghie qualsiasi cosa potesse cadere. Anche se la gente, inspiegabilmente, non si era accorta di nulla,  ero certo che tra un po’ ci sarebbe stato da ballare, e non per merito dei musicisti, ma dello scirocco. Sì, perché va a raffiche. Un  maestrale invece, anche se è più forte, è meno pericoloso perché è costante. Ma lo scirocco, quello è vigliacco: molla un poco e poi tira peggio, dando il tempo alle strutture di dondolare, ai teli di gonfiarsi e strapparsi, ai perni di staccarsi. Quando fa sul serio, c’è da cagarsi sotto.

Beh, preoccupati lo eravamo, ma non preparati. Cominciò a piovere, poche gocce, ma ognuna valeva un gavettone. Non era finita la prima canzone che l’acqua diventò un getto continuo. A causa delle raffiche, poi, entrava dappertutto. Era la prima volta in vita mia che vedevo piovere in orizzontale. La gente correva da tutte le parti cercando un riparo impossibile allontanandosi dal campo di patate che in pochissimo tempo era diventata una specie di  enorme ring per la lotta nel fango.

Naturalmente togliemmo subito la corrente. In pochi secondi i musicisti abbandonarono il palco mentre il cantante ancora protestava contro il pubblico e ovviamente contro di noi. Il luciaio mise al riparo le regie con il sistema coperchio e telo e ci raggiunse sul palco: cercammo di coprire tutto ma i ma i teli non servivano a niente: troppo vento, troppa acqua, troppo tutto. Potete non credermi, ma un secondo esatto dopo aver tolto le mani dal quadro elettrico, un fulmine prese in pieno l’americana e fece un effetto che neanche i Pink Floyd. Subito dopo smise di piovere come se uno avesse detto «ok, basta»: all’istante, come un lavoro ben fatto, senza bisogno di ritocchi.

Finimmo di smontare grazie ad un lampione della pubblica. Eravamo bagnati fradici, c’era acqua nei fari, nei monitor, ovunque. Era semplicemente incredibile tutta quella pioggia, a secchiate, e in così poco tempo. Per non parlare del fango, che ce l’avevi anche nelle orecchie: i bauli più pesanti affondavano e a fine serata sembravamo minatori. Quella roba è rimasta sul materiale per settimane. Quindi, ragazzo mio, non parlare di tempesta se non sei stato alla festa di Santo Sfigo.

– Ma… com’è finita?

– Come vuoi che sia finita? Con le ossa rotte: fra pioggia e fulmine ci siamo giocati quasi tutte le lampade delle par, il quadro elettrico, i finali di mezzo impianto. Fortunatamente le regie si salvarono, grazie al backliner che, in un momento di ispirazione, aveva staccato alimentazione e multipolare. Ed è rimasta l’unica nota positiva, perché non fummo neanche pagati. Quella sera, anche quando smise di piovere, nessuno del comitato si fece vedere. Qualche giorno dopo li sentimmo al telefono: voi siete stati bravissimi, ma per colpa della pioggia non abbiamo incassato niente..ma non vi preoccupate, l’anno prossimo vi facciamo recuperare!

Ridono tutti, pure Paolino, che quando ride è un problema: spacca i timpani. Con un tempismo perfetto si alzano contemporaneamente ed escono. Pietro è l’ultimo, con una mano sull’interruttore guarda ancora una volta il pavimento sporco, pensando a quel campo di patate con tonnellate di fango rosso.

Poi spegne.

immagine di copertina: Enzo Rizzi – © 2019 ROBA DA FONICI – tutti i diritti riservati