l'arte di arrangiare

Si può fumare

Doveva essere una di quelle sere in cui non fai troppo tardi.

Mi hanno chiamato per sostituire un collega del Supreme Waveforms. È uno studio fantastico, gestito da tecnici bravi e disponibili, e ci incontri sempre gente simpatica. Li conosco da tempo, ma è la prima volta che sono qui in veste ufficiale di vice-fonico residente.

In studio ci sono gli Hardly Black, un quartetto rock in vecchio stile. Niente elettronica: chitarra, basso, batteria. Suonano insieme già da tempo, ed hanno deciso di registrare una demo di inediti. Il lavoro sembra semplice, forse proprio per questo ho la sensazione che potrei fare o dire una cazzata da un momento all’altro.

Così cerco di non sbilanciarmi troppo, anche con l’assistente microfonista arrivato fresco fresco dalla scuola, mentre facciamo due chiacchiere in saletta.

In realtà questo è l’ingresso. La cosa buona è che ha la porta che dà direttamente sulla strada e la finestra che affaccia su un cortiletto interno. Tra questa stanza e la regia ci sono ben due porte e un corridoio: in poche parole, aprendo la porta e la finestra per creare corrente, si può fumare.

Il discorsetto

E’ una stanza perfetta per fare conversazione: due divanetti rossi, le pareti tappezzate di scuro, le luci non troppo basse. In un angolo, come in ogni studio che si rispetti, c’è un bel pezzo vintage: un Universal Audio M-610 messo lì senza alcun motivo se non quello di ricordare come si facevano le cose una volta.

Sto attento a non toccare nulla. Anche se i colleghi sono tranquilli si sa che, quando si tratta del nostro studio, noi siamo come i cani, e marchiamo il territorio. È soltanto la nostra natura, ed io non so fino a che punto mi posso spingere, con lo studio e con la band.

Il punto è che oggi io sono l’unico che gioca fuori casa, e sono venuto con la sola intenzione di fare il mio dovere: mettere giù qualche take almeno decente. Ma all’ultimo giro ho dovuto chiedere di fare una pausa. La cosa mi rincresce perché qui, come in molti altri studi, la tariffa è oraria ma è arrivato il momento di fare un discorsetto alla band, a cominciare dal batterista.

Cerca di essere morto

È un tipo alto come Stewart Copeland, ma la somiglianza finisce qui. Ha i capelli lunghi incollati alla faccia, congestionata dall’ultimo sforzo atletico e si asciuga la fronte come se avesse sudato. In realtà in cabina c’è l’aria condizionata, ma questa è una band rock in vecchio stile, no? A sua discolpa possiamo dire che è giovane, ma in ogni caso ben oltre l’età della ragione, almeno secondo la legge.

Avevamo quasi finito di fumare quando finalmente ci raggiunge nella saletta. Io e l’assistente lo guardiamo un po’ di traverso. Solo che, a quanto pare, ci dev’essere abituato, o forse deve aver letto da qualche parte che i fonici guardano tutti con scortesia. Per cui fa finta di niente e si accende anche lui una sigaretta.

Invece al corso di comunicazione efficace ci hanno insegnato che è buona norma, all’inizio ed alla fine di ogni conversazione, distendere la muscolatura del viso. Così, prima di iniziare, cerco di sdrammatizzare con un sorriso: «Senti, Gianni…»

«Veramente, Giangi.» Evidentemente, lui il corso non l’ha fatto.

«Certo. Giangi. Dicevo: fammi un piacere, ascoltami. È già la terza volta che te lo dico. Quando chiudi coi piatti – cioè sempre, per quello che ho sentito – alza la testa e guardami, dal vetro. Dopo di che, non fare nient’altro: niente, non respirare neanche, finché non ti faccio segno che è ok. Perché vedi, quando finisci il pezzo, ci sono ancora suoni in giro, cioè la coda dei tuoi piatti. Se parli in quel punto, se fai un qualsiasi rumore, si sente nella registrazione e ti tocca rifare.»

Giangi ha un brutto carattere. O lo avrà, crescendo. Perché, invece di dire quel che uno s’aspetta da una persona normale, tipo va bene, ci starò più attento o anche soltanto ok, che è tutto quel che mi serve sentire, mi fa, mentre tossisce per l’ultimo tiro andato di traverso: «Vabbè, ma non la puoi sfumare, la coda?»

«No, Giangi. Cioè, dipende da quando tu fai il rumore. Se taglio troppo presto, suona… innaturale, artefatto.»

«E che significa?»

«Significa che fa cagare!» il microfonista trattiene a stento una risata. «Quindi, devi solo stare fermo e zitto per qualche secondo. Insomma, alla fine è semplice: cerca di essere morto finché non ti dico di resuscitare.»

Giangi non risponde, o comunque non fa in tempo, perché il resto della band fa irruzione discutendo a voce alta. In realtà il bassista si limita a seguire gli altri due con lo sguardo tipico di chi pensa: non è un problema mio. In ogni caso l’ingresso ora sembra un ascensore. Dalle parole che mi sembra di sentire, pare che stiano litigando per l’arrangiamento. Arrangiamento: ce ne fosse uno.

Sperimentando

Assisto un po’ impaziente alla crisi di coppia tra cantante e chitarrista: come spesso capita, sono i due compositori della band. Non ho ancora capito chi scriva i testi e chi le musiche. Dev’essere perché sono tutti e due alti e magri, faccio confusione.

In effetti in questa band sono tutti alti e magri, tranne il bassista. Fisicamente ricorda Jack Black di School of Rock ma ha molta meno grinta ed è vestito come un ragioniere. Anche quando suona, sembra usi una calcolatrice: ritmo quadrato, mai una nota fuori posto, tocco preciso, forse anche troppo. Ma questo adesso è l’ultimo dei miei pensieri.

Approfitto di una breve tregua fra le due star: «Ragazzi, vi devo fare una domanda: chi di voi scrive le musiche?»

Come se dovesse discolparsi, il cantante indica il collega e poi aggiunge: «Le musiche le scrive lui, ma il cantante sono io.»

«Be’, di questo ce ne siamo accorti tutti, non ci sono dubbi. La cosa un po’ più difficile da capire è perchè ogni volta canti in modo diverso. Non ti è chiara la linea melodica?»

«No no… più o meno… cioè…la melodia più o meno l’ho capita… però… cioè…»

«Ascoltami: Non c’è niente di male a fare più versioni dello stesso brano e poi scegliere quella che ti piace di più. Anzi, è un buon metodo di lavoro e ti da’ la possibilità di lavorare con creatività al brano. Ad esempio potresti doppiare intere parti per dare più spessore alla voce. Anche Ian Gillan lo faceva spesso, non che ne avesse bisogno, però…»

«Chi?»

«Lascia stare, poi ti dico. Il punto è che non puoi non puoi cambiare il modo di cantare all’interno della stessa take! Se fai così, il pezzo diventa disomogeneo, manca di coerenza…»

«E che significa?»

Interviene il batterista precedendomi di un attimo: «Fa cagare…» e scoppia a ridere insieme al microfonista.
Il cantante non si da per vinto: «Eh, ma io lo faccio per variare…»

Faccio uno sforzo per mantenermi calmo: «Vedi, non c’è nulla di male a variare delle parti. Ma tutto questo deve avere un certo andamento, una certa simmetria. Quello che tu stai facendo… è che stai…» vorrei dire “cantando alla cazzo di cane” ma poi mi ricordo che non sono nel mio studio ed a casa degli altri occorre essere educati e diluisco il concetto: «Stai… sperimentando!»

«Giusto! Sperimentazione!» fa il cantante, con lo sguardo ispirato.

«Intendo dire che hai deciso di fare i tuoi esperimenti qui, in studio, con una tariffa oraria, e questo non ha niente a che vedere con l’essere artisti. Avresti dovuto fare questo lavoro prima di venire a registrare, quando eri in sala prove, o magari a casa. Se stai pensando che questi non sono fatti miei, ti sbagli.

Già l’idea di registrare tre pezzi completi in una giornata è abbastanza lontana dal verosimile. Un sogno, diciamo. Ma a queste condizioni, non ne facciamo nemmeno uno. Oppure saremo costretti ad accontentarci di un lavoro fatto male del quale nessuno di noi sarà fiero. Ed io non ho alcuna intenzione di fare la figura dell’incompetente perché tu non hai studiato le tue canzoni, o lui parla sulla coda dei piatti.»

Il microfonista sul divanetto fa un cenno di assenso: sa bene che, per quello che la band pretende, siamo davvero in alto mare. I ragazzi si guardano un po’ di traverso l’un l’altro, come per scaricarsi ciascuno la propria parte di responsabilità. Tranne il bassista: conserva l’espressione impassibile tipica di chi pensa: non è un problema mio.

L’arte di arrangiare

Mi accendo un’altra sigaretta. Forse questa pausa sta durando più del previsto (e del dovuto) ma ora è importante dare alla band il modo ed il tempo di digerire bene la questione. E soprattutto, non ho ancora finito.
Riprendo il “giro” rivolgendomi al chitarrista. Voglio assomigliare il meno possibile a quel tale professore che tutti, prima o poi, abbiamo odiato, quindi continuo a sdrammatizzare con un sorriso.
Prendo spunto dalla sua t-shirt, slabbrata e scolorita, ma sulla quale si legge ancora bene la scritta “artist”: «Ci sono diversi tipi di arte. Alcune sono comuni, riconoscibilissime: dipingere, scolpire, o comporre. Altre sono un po’ più sottili: rimanendo in tema musicale, direi che arrangiare è una di queste.»

«Ma certo! La famosa arte di arrangiarsi… »

Il mio collega sul divanetto si dà una manata in fronte che si sente così forte da scatenare una risata generale. Io neanche mi giro, e continuo a guardare l’artista dritto negli occhi, ma senza smettere di sorridere.

Quindi, tranquillo, riprendo: «Ho detto arrangiare. Cioè fare in modo che il pezzo sia davvero originale, vivo, con qualcosa che lo identifichi. Non basta il riff. C’è da lavorare sugli stop, gli arpeggi, i rivolti degli accordi. A parte gli assoli, occorre pensare a fraseggi, abbellimenti, altri elementi che caratterizzano il pezzo. Tu non fai niente di tutto questo, stai semplicemente suonando il pezzo com’è: nudo e crudo.»

Poi mi rivolgo a tutti: «Se non mettete nemmeno una ghost note o un piattino in controtempo, sapete come andrà a finire? Quando mixeremo mi chiederete di aggiungere effetti, comprimere, doppiare, panpottare, e chissà cos’altro ma il pezzo non vi piacerà mai. Suonerà sempre così, nudo e crudo: se abbiamo registrato una semplice sequenza di accordi, tireremo fuori solo una ben equalizzata, super-compressa, mega-effettata, semplice sequenza di accordi.»

Segue un silenzio pesantissimo, è evidente che non si aspettavano che andasse a finire così. Ora però il cantante ha uno sguardo un po’ sollevato, sa che se oggi non combineranno niente, non è tutta colpa sua. Osserva in silenzio i compagni della band mentre il batterista e chitarrista pare vogliano dirsi l’un l’altro: te l’avevo detto! In ogni caso il mio discorso pare aver colpito un po’ tutti. Tranne il bassista: continua a guardare noi comuni mortali come se volesse dirci: non è un problema mio.

Rientriamo in sala

Naturalmente, io sono pronto alla controffensiva: potrebbero darmi del presuntuoso, dell’incapace o molto più semplicemente dello stronzo. D’altronde si sa, la colpa è sempre del fonico.
Invece inaspettatamente il chitarrista mi dice, con lo stesso sguardo ispirato dell’amico, poco prima: «Va bene se riprendiamo subito? Voglio provare un arpeggio.» Segue a ruota il batterista: «Allora rifacciamola tutta, così metto un controtempo sull’attacco del ritornello…»

Mentre rientriamo tutti in sala il cantante legge avidamente il foglio con il testo del brano, pare stia decidendo finalmente come cantare. Il bassista si avvicina a turno ai compagni della band, bisbiglia a ciascuno qualcosa all’orecchio ma tutti scuotono la testa.
Mi avvicina per ultimo e mi chiede sottovoce: «Scusa, il mio basso è attivo… si è scaricata la batteria… hai una 9 volt?»

Lo guardo come per dirgli: non è un problema mio. Ma poi ci ripenso e prendo la mia inseparabile valigetta con il mio kit di sopravvivenza. E’ poggiata in terra, in regia, proprio sotto la console.

 

immagine di copertina: Enzo Rizzi – © 2019 ROBA DA FONICI – tutti i diritti riservati